Toxic Job: comportamenti e contenuti ‘tossici’ nella cultura e nel mondo del lavoro digitale

Francesco Scarpelli

14 Aprile 2025

Francesco Scarpelli

14 Aprile 2025

La tossicità online non si limita al dibattito politico. Contenuti e comportamenti tossici si manifestano in tutti i contesti quotidiani, influenzando anche le culture aziendali e gli ambiti professionali. Oggi esploriamo i fenomeni più ricorrenti o emblematici nel mondo del lavoro, allo scopo di individuare cause ed elementi ricorrenti, valutare  l’impatto sul benessere dei lavoratori e sulla produttività aziendale, e individuare le possibili strategie per prevenirli o per mitigare gli effetti, promuovendo ambienti online e offline più sani e inclusivi.


Passando in rassegna gli ultimi due decenni, troviamo numerosi spunti di riflessione sulla tossicità digitale,  che va ben oltre i temi politici o i trend socio culturali più evidenti e cavalcati.
Abbiamo già constatato che i contenuti e i comportamenti tossici online condividono caratteristiche comuni.

Hanno un intento distruttivo, mirano a danneggiare, manipolare o destabilizzare.
Hanno impatti nocivi, perché causano danni psicologici, emotivi o sociali.
Sono virulenti, perché possono diffondersi rapidamente e amplificare i danni grazie agli algoritmi dei social. In tal senso, non è casuale che alla base di molti dei contenuti tossici si riscontrino matrici culturali analoghe, che amplificano ed evolvono online dinamiche già critiche nella società.

Gamergate

Nel 2014, la comunità mondiale dei gamer fu scossa da una campagna di molestie nota come Gamergate. Tutto cominciò quando Zoë Quinn, sviluppatrice indipendente di videogiochi , pubblicò Depression Quest, un gioco testuale progettato per trasmettere l’esperienza della depressione attraverso una serie di scenari fittizi, basati sull’esperienza personale dell’autrice con la malattia. Il gioco ebbe recensioni positive da parte della critica, ma ricevette pareri negativi online da parte di tanti giocatori a cui non piaceva l’allontanamento dai tipici formati di gioco e si opponevano a intrusioni “politiche” nella cultura dei videogame.
Così, quella che all’inizio si presentava come una discussione sull’etica nei videogiochi e nel giornalismo di settore degenerò rapidamente in una serie di attacchi misogini contro Zoe e altre sviluppatrici, giornaliste e sostenitrici della diversità di genere nel settore videoludico.
Le vittime furono bersagliate con minacce di morte, stupri e doxxing (diffusione illecita di informazioni personali, ndr) su scala globale.

Già allora dinamiche simili iniziavano a diffondersi in Europa, complice la crescita mediatica di influencer capaci di conquistare pubblici maschili, dai più giovani agli adulti, con retoriche apertamente misogine e orgogliosamente ‘virili’. Nomi come Andrew Tate, Adin Ross, Sneako, JWaller e Stirling Cooper hanno contribuito a normalizzare atteggiamenti tossici verso le donne e a rafforzare stereotipi di genere attraverso i social.

Codice rosso

Nel 2018, la sociologa Silvia Semenzin lanciò una petizione per introdurre una legge apposita contro il revenge porn, ispirata dalla tragica vicenda di Tiziana Cantone. La giovane donna si suicidò il 13 settembre 2016, dopo che alcuni video privati furono diffusi in rete dal suo ex fidanzato. Il clamore del caso spinse attivisti e studiosi, come la stessa Semenzin, a studiare il fenomeno in Italia, evidenziando l’urgenza di strumenti legali per contrastare queste pratiche illecite sempre più frequenti nei social e sul web. L’impegno culminò nell’approvazione di una legge dedicata nel 2019, nota come Codice Rosso, o legge anti revenge porn, a testimonianza dell’impatto sociale e culturale di tale vicenda.

Più recentemente, lo scandalo del Pandoro Gate che ha macchiato la figura social di Chiara Ferragni ha evidenziato la pervasività delle dinamiche tossiche. In questo caso, la controversia sulla campagna di beneficenza ingannevole, ha scatenato un’ondata di critiche e insulti verso l’influencer, verso il brand coinvolto, verso la sua famiglia e il suo ex marito, Fedez, il cane di Fedez… mostrando ancora una volta che le campagne di responsabilità sociale funzionano quando sono radicate e trasparenti, e viceversa possono aprire la stura a reazioni scomposte, qualora puzzino di image washing

Tossicità digitale nelle imprese e nel mondo del lavoro

Le dinamiche tossiche sui social si manifestano in contesti diversi e assumono forme variegate, e sono presenti anche nei social più diretti alla comunicazione e alla messaggistica, e uscendo anche dai temi politici o culturali più espliciti e ricorrenti. Così la tossicità, si può dire, accompagna anche il lavoro e i suoi spazi. E anche per questo diventa essenziale sollecitare una riflessione ampia e dettagliata, che interessi ricerca e imprese, oltre alle istituzioni pubbliche e private, per definire strategie efficaci adatte a promuovere un ambiente digitale meno ambivalente.

In modo prevedibile, infatti, la digitalizzazione dei processi e l’uso massiccio di piattaforme online fanno emergere fenomeni tossici che minano la collaborazione e il benessere anche nelle aziende. Il mondo del lavoro non è immune alle tossicità che si osservano sui social e nelle community online: logiche polarizzanti e comportamenti aggressivi si infiltrano sia nelle interazioni tra colleghi che in quelle tra impiegati e dirigenti, e tra aziende e consumatori, come già abbiamo potuto constatare.

Competitività, sessismo, controllo

Riguardo le prime e le seconde, in primo luogo le donne, come già osservato, affrontano commenti sessisti, episodi di esclusione dai processi decisionali e talvolta molestie dirette nelle interazioni digitali, specie nei settori professionali ad alta concentrazione maschile. Questi comportamenti si rivolgono anche alle minoranze di genere e ai soggetti deboli, come persone LGBTQ+ e individui con diverse abilità, amplificando l’esclusione sociale e professionale, le disuguaglianze, danneggiando anche il morale e la motivazione di chi li subisce.
Si tratta di ostacoli quotidiani all’inclusività, che è invece una leva fondamentale per migliorare il benessere collettivo e stimolare la produttività in ambienti di lavoro equi e collaborativi.

Always On

La digitalizzazione e la ‘dematerializzazione’ del lavoro, poi, hanno favorito un’attitudine per cui essere sempre connessi e reperibili non è una scelta ma un’aspettativa. Messaggi e mail si accumulano, e spesso richiedono risposte immediate, anche fuori dell’orario di lavoro. Una pressione costante erode i confini tra vita lavorativa e privata, generando ansia e stress cronici. L’incapacità di staccare davvero può tradursi in insoddisfazione, nei casi peggiori in burnout.

Piattaforme di comunicazione aziendale come Slack o Teams offrono enormi opportunità di collaborazione, ma possono anche diventare terreno fertile per comportamenti manipolatori ed episodi di bullismo aziendale. Denigrare un collega in pubblico, screditarlo o ‘cancellarlo’ di fronte al team, manipolare informazioni per metterlo in cattiva luce, sono fenomeni più comuni di quanto si possa pensare e minano profondamente la fiducia tra colleghi, creando tensioni, abbassando la produttività e contribuendo a un ambiente di lavoro ostile.

Gogne e narcisismi

Uno studio pubblicato su Psychological Bulletin ha evidenziato che il narcisismo è positivamente correlato con comportamenti aggressivi sul lavoro, come la diffusione di voci e il sabotaggio del lavoro altrui, che aumentano lo stress tra i dipendenti e portano a un aumento dell’assenteismo e del turnover del personale.

In alcune realtà aziendali, gli errori commessi dai dipendenti vengono discussi in modo pubblico, spesso con toni punitivi. Queste pratiche di shaming, più o meno consapevoli, che possono avvenire su piattaforme interne o gruppi mail o chat, generano paura e insicurezza. E quando si teme di essere giudicati o esposti al pubblico ludibrio, diventa difficile innovare e comunicare apertamente, limitando la crescita personale e aziendale.

Microgestione e feedback distruttivi

La valutazione di performance delle risorse è essenziale per una impresa, ma può degenerare in competizione selvaggia. Strumenti come chat invasive, che con la scusa di fare team fanno confronti espliciti su produttività e caratteri, od organizzano gare e superflue rivalità  interne  rischiano di ridurre la collaborazione e possono aumentare lo stress.
Invece di promuovere il merito,  tendono a trasformare il lavoro in una gara individuale, con impatti negativi sul benessere proprio e del team.

La diffusione di strumenti di monitoraggio del lavoro ha aperto la porta a nuove forme di microgestione, e questo è bene. La qualità delle interazioni tra manager e dipendenti è essenziale per costruire un ambiente di fiducia. Ma se i manager controllano costantemente le attività dei dipendenti attraverso report giornalieri o software di tracciamento, erodono l’autonomia e la fiducia. Il controllo ossessivo riduce la motivazione e rende difficile per i dipendenti sentirsi valorizzati. Il feedback poi è uno strumento cruciale per la crescita, ma se fornito in modo pubblico e negativo, può rivelarsi distruttivo. Critiche non costruttive o poco rispettose riducono il morale del dipendente e rischiano di rendere inefficaci i processi di miglioramento.

Esclusione e cancel culture

Le piattaforme collaborative possono anche rivelarsi spazi di esclusione. Dipendenti che non condividono opinioni dominanti o che sono semplicemente meno coinvolti rischiano di essere emarginati o derisi. Il lavoro non è immune neppure alla cancel culture. Errori, opinioni o scelte non conformi alle aspettative possono portare a critiche pubbliche e danni reputazionali irreparabili, senza spazio per il dialogo o il miglioramento. Un clima ostile soffoca la diversità di pensiero e rende il contesto più fragile e incerto, poiché la mancanza di inclusione mina il senso di appartenenza e crea divisioni all’interno del team.

Diffusione di informazioni false e blacklisting

In ambienti particolarmente competitivi, infine, la reputazione può diventare un’arma. Diffondere voci false o mettere un professionista o un’azienda in cattiva luce è una strategia tossica che distrugge relazioni e fiducia. Oltre ai danni morali e professionali, questi comportamenti possono avere gravi ripercussioni legali.
Per affrontare e contrastare tutte queste dinamiche, le aziende devono stabilire politiche chiare, e mettere a punto strumenti di supporto a una rinnovata cultura del rispetto e della collaborazione. 

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