Brainrot: cos’è e perché i Brand lo usano per conquistare i Gen Z (e non è detto ci riescano davvero)

Daniele Mannina

28 Maggio 2025

Daniele Mannina

28 Maggio 2025


Trippi Troppi Troppa Trippa, Bombardiro Crocodilo, Cappuccina Ballerina e Cappuccino Assassino, Trallallero Trallallà, Brr Brrr Patapim, Tung Tung Tung Sahur.
Di sicuro avrete sentito voci robotiche, con accenti stranieri e stranianti, declamare qualcuna di queste parole incomprensibili in video assurdi, con personaggi impossibili creati dall’AI.

Se non ci state capendo niente, probabilmente siete ‘vecchi’, boomer, direbbero nei servizi di costume di un qualsiasi tg nazionale. Oppure, semplicemente, è giusto così, c’è poco da capire.

Se poi volete provare a capirci qualcosa approcciando il fenomeno Brainrot con spirito critico, cercando di analizzarlo dal punto di vista filosofico, antropologico, sociologico, persino di marketing,  se lo volete fare, fatelo”, ma probabilmente non ne vale la pena.

Fenomeni del genere sono belli proprio perché insensati, nati dal caso, dal caos, e cresciuti in un contesto come quello degli short video (da TikTok a YouTube) dove non sempre c’è una ragione a tutto. Si potrebbe quasi dire che il Brainrot è virale perché è virale.

E se anche a Oxford si discute di tormentoni rotten come “Bombardiro Crocodilo” o “Cappuccino Assassino”, ecco una prova definitiva che viviamo tempi strani. Sì perché nel 2024, “brain rot” è stata eletta Parola dell’Anno dall’Oxford University Press. L’espressione che un tempo indicava genericamente “perdita di neuroni” oggi è un termine accademico che descrive «il declino della qualità dei contenuti culturali, accelerato dagli algoritmi e dal consumo compulsivo di media brevi» (cit. Oxford).

Brainrot: quando il nonsense diventa virale

Perché dopo aver elencato litanie di parole che sembrano uscite dal T9 di un alieno ubriaco, viene da chiedersi: perché se ne parla tanto?
E soprattutto, perché grandi Brand come Loewe, Rynair, Duolingo, KFC si sono lanciati nella mischia creando contenuti parodistici in stile Brainrot? Davvero esiste un senso in tutto questo?
La risposta, ovviamente, è ancora no. E proprio per questo il Brainrot funziona. È come quel compagno di scuola che raccontava barzellette senza battuta finale e rideva da solo: alla fine, ridi pure tu, non si sa bene perché.  

Brainrot 101: Corso accelerato in Brainrotting

A questo punto però un minimo di spiegazione su cosa sia il Brainrot forse va fatta. E dunque: immaginate di prendere un bambino di cinque anni, dargli tre Red Bull, fargli guardare “Twin Peaks” in loop e poi chiedergli di inventare una storia usando solo emoji. Il risultato sarebbe una denuncia per maltrattamenti su minore per voi e qualcosa di molto simile al Brainrot nella reazione del bambino. Personaggi come Ballerina Cappuccina o Bombardiro Crocodilo nascono da algoritmi AI programmati da qualcuno che ha fatto una scommessa del genere: “Quanto può diventare virale una cosa, se non significa nulla?”. Spoiler: tantissimo.  

Perché il Brainrot piace? Perché il cervello è in sciopero

Gli esperti si affannano a spiegare il fenomeno con definizioni e argomenti scientifici tipo “sovraccarico cognitivo”, ma la verità è evidente: dopo ore e ore di scroll compulsivo, il cervello raggiunge uno stato di tale stanchezza da apprezzare persino il video di un cappuccino che balla la macarena, accompagnato a una voce sintetica, stonata e spagnoleggiante che urla “BALLERINA CAPPUCCINA”, oppure la clip di un tronco antropomorfo armato di mazza da baseball che ripete all’infinito (in loop) “TUNG TUNG TUNG SAHUR”. È la versione 2.0 del guardare il caminetto acceso o il cantiere dei lavori: non devi pensare, solo esserne inspiegabilmente attratto. 

E le Marche? “Hold my cappuccino assassino

Come ogni trend che si rispetti, anche il Brainrot ha già attirato l’attenzione dei grandi Brand, dicevamo, pronti a trasformare tanto nonsense in cash. Immaginate il meeting di marketing: “Ragazzi, i Gen Z amano i meme senza senso. Creiamo un personaggio AI che parla in rime sconnesse e vende creme idratanti!”. Et voilà! Ecco spuntare profili Instagram aziendali che postano video di Trallallero Trallallà per promuovere uno shampoo alla quinoa.

  

Ballerina Cappuccina, ormai star indiscussa, ha attraversato il web, ed è passata dai meme ai tutorial beauty: “Oggi vi insegno come fare il contouring mentre declamo frasi senza senso con accento sloveno!”. E funziona, perché in un mondo dove tutto deve avere uno scopo, l’unica cosa che rende liberi è… non averne alcuno. 

Il Paradosso del Brainrot Marketing: Fingere Spontaneità  

Un’opportunità di marketing dunque? Sì, ma anche no. Perché inevitabile arriva anche il rovescio della medaglia: più le marche cercano di essere ‘relatable’ e ‘gggiovani’, più finiscono per sembrare la zia che balla la trap alla festa di laurea. “Guardate, siamo divertenti e fuori dagli schemi!”, urla un post sponsorizzato con un vombato astronauta CGI che canta Frrr Frrr Ciumblin mentre tiene in mano una bevanda energetica.
Peccato che l’essenza del Brainrot sia proprio la sua autentica, ‘gloriosa’ insensatezza. E se ci metti sopra il logo di un’azienda, rischia di diventare come un karaoke stonato: tutti fanno finta di divertirsi, ma si sente la fatica.  

Conclusioni? No, grazie 

Alla fine, cercare di analizzare il Brainrot marketing è come chiedere a me che scrivo di spiegare la teoria della relatività, o la fisica quantistica. È inutile, ma almeno ci hai provato. Intanto, mentre facciamo accademia, qualcuno ha caricato il video di un cactus vestito da bersagliere che rappa Flippi flappi flappa flò, cado giù ma dico boh con sottofondo di chitarra flamenco e sax celardo. E ha un milione di views. 

Morale: il Brainrot è il sintomo perfetto di un’era in cui il confine tra genio e follia è così sottile che, forse, non esiste. E mentre voi leggete, ora che siete arrivati alla fine, vi starete chiedendo che obiettivo ha questo post.

La risposta è: nessuno! Come il Brainrot.

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