
Sui social si plasmano opinioni, si diffondono narrazioni e si alimentano polarizzazioni. La combinazione di bot, algoritmi e strategie di propaganda digitale ha reso la disinformazione più pervasiva e sofisticata, mentre dinamiche come la “cancel culture” contribuiscono a estremizzare la tossicità del dibattito online.
In questo articolo analizziamo come la deregulation e il declino del fact-checking giocano a favore della propaganda e modificano il modo in cui percepiamo la realtà e come partecipiamo alla conversazione pubblica online.
Bot e false identità
Esistono elementi di tipo ‘ambientale’ che favoriscono la tossicità dei discorsi online. L’immaterialità di falsi account e bot, ad esempio, facilita l’occultamento di identità reali, e fornisce scudo a chi manipola le conversazioni, amplificando campagne d’odio o di propaganda.
Il caso degli attacchi contro Liliana Segre è emblematico: la Senatrice a vita, sopravvissuta all’Olocausto e simbolo della lotta all’odio antisemita, da anni sotto scorta, è stata bersaglio di molestie organizzate a più riprese via social, con messaggi di negazionismo, diffamazioni e minacce, anche negli ultimi mesi, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre ‘23 e l’assedio israeliano a Gaza, e ancora nel periodo di commemorazione della Giornata della Memoria, lo scorso 27 gennaio.
Altrettanto significativo, per ricorrenza e dimensioni, è l’uso di account falsi per diffondere disinformazione, specie politica, ma pure scientifica, commerciale, industriale. Accade ed è accaduto durante le elezioni italiane del 2018 e del 2022, così come in Usa nel 2016, nel 2020 e lo scorso novembre.
Processi analoghi sono emersi lo scorso luglio in Francia, e a giugno per le europee. Di recente la Corte Costituzionale rumena ha annullato il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali di novembre 2024, a causa di gravi interferenze rilevate dall’intelligence a favore del candidato filo-russo Călin Georgescu. Secondo le indagini, la Russia avrebbe condotto cyber attacchi mirati alle infrastrutture elettorali, e avrebbe usato TikTok e altri i social media per incrementare il sostegno al candidato amico. In risposta, le autorità romene hanno avviato indagini per riciclaggio di denaro e finanziamento illecito della campagna elettorale.
Georgescu, dal canto suo, ha definito la decisione della corte un “colpo di stato formalizzato”, e ha annunciato di appellarsi alla Corte Suprema e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Lo schema in ogni caso è collaudato: bot e profili anonimi, oggi con l’ausilio efficace dei sistemi di intelligenza artificiale, diffondono e amplificano contenuti tossici coordinati strategicamente, e rendono arduo risalire ai responsabili in tempi consoni.
Più indietro nel tempo, il caso della campagna contro Huawei è stato un altro esempio lampante. Nel 2019, lobby americane vicine alle agenzie federali hanno organizzato una campagna online contro il Big Tech cinese per ostacolare la diffusione in Europa delle sue tecnologie 5G, con particolare attenzione al Belgio, che in quel periodo doveva legiferare a riguardo. La campagna, mirando a sollevare preoccupazioni sulla sicurezza nazionale e sulla presunta connessione tra Huawei e il governo cinese, ha utilizzato bot e account falsi per diffondere post sui social, interventi sui forum e nelle community di settore, articoli redazionali, cioè sponsorizzati, a sostegno della tesi che con le sue infrastrutture, il colosso di Shenzhen potesse facilitare lo spionaggio cinese, invitando governi, imprese e cittadini a opporvisi.
I engage you!
A quanto esposto si aggiunge la tendenza delle piattaforme social a privilegiare l’engagement rispetto alla sicurezza, amplificando la portata di contenuti divisivi e polarizzanti, benché entro il perimetro legittimo del diritto d’espressione.
È una delle questioni legate alle politiche sugli algoritmi, e ai loro meccanismi di diffusione e recapito dei contenuti agli utenti social, verticali e autoriferiti. La gestione di X (ex Twitter) sotto Elon Musk afferma questa tendenza in modo esplicito. E la rafforza, allentando le regole di moderazione nel nome del “free speech” tutelato dal Primo Emendamento americano, dalla Carta dei Diritti dell’uomo e anche dalla nostra Costituzione.
Se lo scrupolo è lecito, di fatto la strategia ha prodotto un vuoto operativo nel controllo, e un incremento esponenziale dei contenuti tossici, come documentato dal Center for Countering Digital Hate.A questa dinamica, lo abbiamo accennato, si è aggiunto un nuovo e importante elemento di conferma quando Meta, per bocca dello storico Ceo e fondatore Mark Zuckerberg, ha comunicato l’abbandono ufficiale del fact-checking su Facebook, Instagram e le altre piattaforme del gruppo. Questa decisione, che rientra nella strategia di Zuckerberg per ridurre al minimo i costi operativi, aumenta il rischio di proliferazione di false notizie, disinformazione e campagne di odio, senza filtri preventivi.
Una mossa che si inserisce appieno in un quadro che in ambito accademico alcuni filosofi e sociologi definiscono l’era della post-verità, ove la distinzione tra fatti oggettivi e opinioni soggettive si fa sempre più labile. La verità non è più una questione di dimostrazione razionale o di verifica empirica, ma diventa una costruzione narrativa, spesso alimentata dalla viralità e dall’emotività. In questo contesto, la mancanza di fact-checking non è solo una scelta operativa, ma un elemento attivo che contribuisce a plasmare (fino a distorcere) il dibattito pubblico, lasciando spazio a manipolazioni sempre più sofisticate e pervasive.
Cancel Culture: il polo opposto, sempre tossico
La censura non è una soluzione, specie online, neppure se è spontanea e arriva dagli utenti, perché induce a derive altrettanto tossiche. Il tema della libertà d’espressione è cruciale sul web, proprio perché è connesso al linguaggio, oltre che all’informazione: una censura arbitraria, che diverge dal concetto di moderazione critica e contestuale dei contenuti, mette a rischio la ricchezza e la libertà espressiva che appartengono alla nostra lingua e alla nostra cultura, anche sui social. Ecco perché anche la cancel culture, che si manifesta online attraverso dinamiche di ‘silenziamento’ che colpiscono parole, individui, gruppi, aziende, può indurre a dinamiche tossiche, anche quando partono da sdegno e buone intenzioni.
Di solito il fenomeno avviene quando una persona o un’entità è criticata in pubblico con pesantezza, e poi isolata o ‘cancellata’ a seguito di comportamenti, opinioni espresse o azioni considerate offensive, controverse o inaccettabili da altri utenti o altre community. Un post, un tweet, un’intervista, una frase o un’azione passata, catturano l’interesse perché considerati problematici, e diventano virali, quasi sempre fuori dal contesto di origine. I social fungono da diffusori, trasformando una questione locale o contingente in un moto pubblico, di solito di indignazione. La fase successiva è l’isolamento digitale: il soggetto viene escluso da collaborazioni, piattaforme o conversazioni tramite azioni di boicottaggio, come smettere di seguire e ostracizzare.
Alcuni considerano tali azioni strumenti legittimi di responsabilizzazione, e forse in alcuni casi lo sono. Altri invece le vedono come forme di ‘linciaggio’ digitale, dove il diritto al dialogo e al miglioramento personale è sacrificato per un giudizio sommario e segnante.
Chi ha tradito grifondoro?
Il caso di J.K. Rowling, la celebre autrice di Harry Potter, è tra i più noti e controversi. Tutto nasce dalle sue posizioni sulla transessualità, considerate da molti fobiche e retrograde.
Nell’estate del 2020, in pieno Covid, Rowling interviene nel dibattito online dichiarando di non essere transfobica, ma di essere preoccupata per alcune rivendicazioni delle persone transgender che, secondo lei, andrebbero a minare diritti conquistati a fatica, nell’ultimo secolo, dalle donne. Nel farlo Rowling rivendica la sua trascorsa militanza femminista: le sue argomentazioni, sostiene, si riferiscono all’equiparazione, e nello specifico a situazioni come l’ingresso ai bagni pubblici o la detenzione carceraria, paventando che una presenza ‘mascherata’ possa generare pericoli nei due contesti, in termini di sicurezza fisica delle ‘vere’ donne.
In breve una parte consistente del pubblico, molti fan, binari e non, di Harry Potter, e molti attivisti LGBTQ+, reagiscono con asprezza, accusandola addolorati di tradire il valore ‘inclusivo’ della sua stessa opera.
Il passaparola a boicottare i suoi libri e i progetti legati al suo lavoro si fa subito massiccio, virale. Il disturbo è efficace, tanto da causare cali significativi nelle vendite dei libri, tra America e Regno Unito, e un evidente danno di immagine in tutto il mondo.
Di fronte a queste campagne, molte persone che non sono d’accordo con lei sulle questioni di genere, difendono tuttavia il suo diritto di esprimere le sue idee, senza per questo essere ‘cancellata’ dal discorso pubblico. Altri ancora, invece, concordi nel merito dei suoi post, hanno sposato in questi anni la sua causa in modo ugualmente rumoroso e strumentale, identificandola come vittima perfetta (che probabilmente non è) della tendenza alla “censura preventiva” woke e liberal.
Lei del resto non ci pensa nemmeno a tacere, sulla Gender Culture e sulle questioni di genere, tanto che lo scorso agosto non ha esitato a riattizzare il dibattito con affermazioni fuori luogo, ai limiti del molesto, nei confronti della pugile algerina Imane Khelif, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Parigi.
Secondo Rowling, contraria alla presenza di atlete transessuali o ermafrodite nelle competizioni sportive femminili, la boxeuse berbera non sarebbe una ‘vera donna’, a causa di livelli di testosterone superiori alla media, dovuti però a un’anomalia endogena. L’atleta, biologicamente di sesso femminile alla nascita, si è offesa, e ha sporto legittima querela per diffamazione. La scrittrice britannica, di conseguenza, ha voluto (o dovuto) cancellare ventiquattro tweet nei quali si era riferita a Khelif in termini pregiudiziali; segno di un ripensamento, o forse di un agreement riservato, a seguito della denuncia legale.
Chi di Toxic ferisce…
Sostenuta in ogni sua uscita dallo stesso Musk e da una pletora di neoconservatori, Rowling continua a tenere le sue posizioni e quando ha occasione contrattacca: è recente un suo post contro una calciatrice africana, Barbra Banda, che gioca nella lega pro americana.
Da polemista, cade anche lei in trappola quanto a tossicità, come in questi due episodi, ed è un peccato. Però ha mantenuto posizioni e presenza pubblica, a dimostrazione del fatto che manovre di cancellazione o silenziamento ottengono un effetto opposto a quello desiderato in rete.
Tossicità e Marketing: la clamorosa vicenda BudLight
Se per molti JK Rowling è una paladina ‘martirizzata’ dal bullismo Woke e LGBTQ+, la vicenda Bud Light si pone come tumultuoso contrappasso.
Ad aprile 2023 Budweiser, il brand di birre che in America e nelle basi militari di mezzo mondo è popolare quanto la bandiera a stelle e strisce, ha lanciato una campagna Adv per Bud Light dal claim “365 Days of Girlhood”, coinvolgendo Dylan Mulvaney, giovane e famoso influencer transgender.
Amatissimo tra gli adolescenti, in quei giorni stava per celebrare il suo primo anno di transizione, e per l’occasione Bud Light gli ha dedicato una limited edition delle sue lattine. Quando Mulvaney, le ha condivise su Instagram con un reel video, si è scatenata una reazione eclatante e rapidissima da parte di alcuni segmenti del pubblico americano: i cristiani evangelici, i neocon, i militari, ecc.
Nelle intenzioni di Bud Light la campagna mirava a rendere il marchio più ‘inclusivo’ e ad attrarre il pubblico più giovane nelle zone più urbane e popolate, che sono anche le più progressive. Alissa Heinerscheid, allora vicepresidente marketing di Bud Light, dichiarava orgogliosa che l’obiettivo era di evolvere il brand, allontanarlo da un percepito da “giovane maschio” alfa o da adulto con baffi e berretto, puntando invece sull’inclusività di tutti i generi contemporanei.
Contrariamente alle aspettative, la campagna ha scatenato un vero shitstorm, con un violento contrattacco da parte di chi interpretava la collaborazione con Mulvaney un allineamento di Bud Light alle logiche del “politically correct” sul delicato e controverso tema dell’inclusività transgender.
Figure pubbliche come i cantanti country Kid Rock e Travis Tritt hanno espresso il loro dissenso in modo plateale. Kid Rock ha pubblicato un video in cui ‘crivellava’, con un fucile da guerra, intere casse di Bud Light. Il gesto, diventato virale, è stato replicato da altri utenti su TikTok.
Molti attivisti e profili, insieme alle loro community cristiane e cattoliche suprematiste e integraliste, si sono messi in moto con fervore organizzando gruppi di preghiera e campagne di boicottaggio, invitando a non bere Bud Light e intossicando il dibattito pubblico con un vasto campionario di meme omofobi, critiche feroci e messaggi di odio.
Mulvaney, volto queer della campagna, è finito al centro di violenti attacchi transfobici e sessisti, anche di minacce. Molti critici l’hanno additata a simbolo vivente di una forzatura “contro natura“, imposta al brand e ai suoi consumatori dai suoi manager.
Nei mesi successivi alcuni distributori e bar che continuavano e continuano a vendere Bud Light hanno riportato casi di intimidazioni, recensioni negative mirate e minacce personali da parte di clienti o attivisti anti-campagna.
Nei mesi successivi, le vendite di Bud Light sono diminuite drasticamente, con una perdita di oltre il 25% in quote di mercato. Di conseguenza, Bud Light ha smesso anche di essere la birra più venduta negli Stati Uniti, superata da marchi come Modelo Especial e Michelob Ultra.
Anheuser-Busch, la compagnia proprietaria del brand, ha preso provvedimenti licenziando la Heinerscheid, liquidando le agenzie coinvolte, e ha alzato il budget per nuove campagne volte a recuperare la fiducia dei consumatori.
Questa vicenda insegna che occorre fare attenzione quando si adottano strategie di marketing che combinano toni o registri inclusivi e disruptive in un contesto già polarizzato. L’intento era positivo e responsabile, la campagna confezionata con cura per attrarre un pubblico più giovane e diversificato, che in città come New York e Los Angeles vive davvero come una Dylan qualunque. La reazione negativa di una parte consistente di consumatori più tradizionali però era prevedibile, e la presunzione del board ha provocato un danno d’immagine incalcolabile oltre a perdite finanziarie rilevanti.
Poiché a volte non c’è limite al peggio, le stesse misure prese da Bud Light per mitigare il danno, come il licenziamento dei responsabili della campagna, sono state percepite da molti nella comunità LGBTQ+ come una abiura, alienando gran parte del pubblico stesso che volevano attrarre.
Questi episodi hanno amplificato la crisi, trasformando quella che doveva essere una campagna di inclusività in una fonte di divisione culturale.
In questo scenario, la tossicità online non è un soltanto un fenomeno spontaneo e occasionale, ma un meccanismo psico-sociale che si autoalimenta, sfruttando l’anonimato e l’opacità, l’intelligenza artificiale e i big data, le dinamiche di engagement e la polarizzazione. L’assenza di fact-checking, la disinformazione costruita con l’uso strategico di bot e falsi account, i sistemi di moltiplicazione di post e account, rendono la rete e i social un crocevia di temi e trend in flusso, narrazioni correnti e manipolate, e la verità è sempre più liquida e difficile da raccogliere. A perderci è chi in rete lavora, acquista, agisce e progetta, vende, comunica e interagisce tutti i giorni. La moderazione proattiva e il pensiero critico restano difese plausibili, efficaci e praticabili per vivere sul web senza restare intossicati.
Ti sei perso il primo approfondimento di Neon? Abbiamo parlato di Toxic Web e post-verità: disinformazione e hate speech tra social deregulation e fine del fact checking online. Leggilo ora!